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da il portale:    
http://www.telegrafia.it/ik1atk/memorie.html

MEMORIE DI GUERRA (di Salvatore Marino)
La mia prima esperienza di radiotelegrafista.
Il giorno 18 aprile 1937, col grado di sergente d’Artiglieria fui mandato in
Etiopia
per le operazioni di polizia coloniale, la sede di destinazione fu Gondar,
l'ultimo
Presidio ad essere stato sopraffatto dopo sette mesi d’assedio durante la
seconda
guerra mondiale'. In Artiglieria ero già specialista per le trasmissioni, che
a
quell’epoca avvenivano con bandiere semplici, (erano bandiere piccole, che,
tenute
in orizzontale con le braccia aperte; abbassandone una si indicava un punto
ed,
abbassandole entrambe una linea) ed a lampo di colore (queste erano fatte con
doppio strato di stoffa; la parte di sotto era bianca e quella di sopra,
tagliata a strisce
e collegate da elastici era rossa; tirando le estremità della bandiera stessa
appariva la
zona bianca che, con apertura breve indicava un punto e, con apertura più
lunga una
linea) e con eliografo che, di giorno funzionava con i raggi del sole e di
notte con
energia elettrica fornita da una pila a secco; è naturale che tutte le
trasmissioni
avvenivano con l’alfabeto Morse. Con gli aerei si comunicava per mezzo di
grossi
teli colorati e con il relativo codice.
Il 17 novembre 1938, dopo un breve corso presso la 22^ Compagnia marconisti
di Gondar, in seguito ad una prova d’esame fui scelto tra tutti gli allievi,
alcuni dei
quali erano presenti all’insegnamento molto tempo prima del mio arrivo.
Nominato
radiotelegrafista, fui incaricato dal comandante, Capitano Guido Festa, a
scegliere
tra i frequentatori del corso un allievo di mio gradimento come secondo
operatore, di
ritirare presso il magazzino una stazione radio R4, con le relative batterie a
secco, e
di prepararmi per la partenza che sarebbe avvenuta il lunedì successivo,
aggregandomi ad una colonna di autocarri per andare a sostituire un collega
nel
Presidio di Celgà. Con la radio mi fu dato solo il tasto verticale (attrezzo
per
trasmettere con segnali Morse) perché, essendo la stessa di piccola potenza,
non
sarebbe stato possibile effettuare i collegamenti dal Presidio dove ero
destinato con
Gondar; "in telegrafia, con radio delle stesse caratteristiche, si riesce a
coprire
quasi il doppio della distanza rispetto alla fonia".
Bisogna precisare che l’Etiopia non era stata mai occupata integralmente ed
alcune
zone erano impenetrabili, e se a volte si facevano dei tentativi, i militari
che ne
prendevano parte; quasi sempre si trattava di un Battaglione di ascari
(soldati
abissini) comandati da ufficiali e sottufficiali italiani, tornavano alla sede
con grandi
perdite.
Celgà era un Presidio completamente isolato e gli unici mezzi di collegamento
erano
la radio ed un fidato corriere abissino che, periodicamente, veniva mandato a
piedi a
Gondar per portare e ritirare la posta. A causa delle piogge e del pericolo al
quale si
andava incontro, per colpa di guerriglieri locali, veniva rifornito di viveri
ed altre
necessità una sola volta all’anno, alcuni generi, come i medicinali, ci
venivano
lanciati da un aereo Caproni 33; si era, quindi, costretti ad organizzare
colonne con
grossa scorta armata. La strada che portava a Celgà era costituita da una
pista e si
poteva percorrere solo nei mesi estivi. Di quel trasferimento conservo un
ricordo che
non dimenticherò mai.
1
Per raggiungere Celgà ci volevano due giorni. Nei miei appunti trovo che era
il 21
novembre 1938. La colonna che trasportava viveri ed altro e della quale facevo
parte era partita al mattino; a tarda sera eravamo giunti a metà strada, era
ormai
quasi notte, cosi, dopo i dovuti accorgimenti di difesa da parte della scorta
armata,
facemmo sosta, mi fu dato l’ordine di impiantare la stazione che, come ho
accennato,
era di piccola potenza e veniva alimentata da batterie anodiche a secco.
L’ufficiale
addetto mi portò un messaggio da trasmettere, era la prima volta che mi
accingevo a
farlo ed il cuore batteva forte; è naturale che il mio corrispondente era
continuamente
in ascolto sulla frequenza assegnataci; ebbene, timidamente, mi misi al tasto
e feci la
chiamata, dopo qualche istante giunse la risposta; al sentire quel segnale per
la
prima volta, mentre mi trovavo in una fitta boscaglia, nel silenzio delle ore
notturne,
mi sembrò di aver toccato il cielo con un dito. Il quadro di quella notte
stellata mi
appare ancora nitido d’avanti agli occhi. Fu questa la mia prima,
meravigliosa,
esperienza di radiotelegrafista. Il giorno dopo raggiungemmo Celgà e diedi il
cambio
al collega che era lì già da qualche mese, e che rientrò a Gondar con la
stessa
colonna.
La guarnigione esistente nel fortino di Celgà, era costituita, in maggioranza,
da
artiglieri padri di famiglia, magari numerose, che, dato il periodo di grande
miseria
che attraversava l’Italia, erano venuti in Etiopia per sbarcare il lunario,
difatti, la
loro paga era di lire cinque giornaliere ed, inoltre, le loro famiglie in
Italia
percepivano il sussidio, cosa che gli permetteva di condurre una vita più
agiata.
Grazie alla mia specializzazione di radiotelegrafista mi rimaneva molto tempo
disponibile perché, oltre agli appuntamenti radio, non avevo nessun altro
impegno.
Possedevo una macchina fotografica 6x9 ed ogni tanto facevo qualche fotografia
che, per mezzo del corriere mandavo a Gondar per farle sviluppare, cosa che
richiedeva molto tempo e, visto il grande desiderio da parte di tutti di
inviarne
qualcuna a casa, mi attrezzai per svilupparle e stamparle, in modo molto
elementare,
2
personalmente; rivestii la mia baracca, che era fatta di paglia, con stoffa
nera; a
mezzo del corriere mi feci acquistare un torchietto, acido per sviluppo, acido
per
fissaggio, bacinelle, carta per la stampa e parecchi rotoli di pellicole; con
le pile
esaurite della radio feci un impianto per luce rossa e, dopo avere scattato le
fotografie, sviluppavo il rotolo, tagliavo i negativi e, uno alla volta, li
mettevo nel
torchietto; ci mettevo la carta da stampa sopra ed usavo una torcia elettrica
per dargli
la luce necessaria. All’inizio le cose erano abbastanza difficili per
stabilire il tempo
di illuminazione giusto per la stampa, ma una volta presaci la mano era un
divertimento. Le richieste da parte dei soldati erano tante e, spesse volte,
passavo
alcune ore della notte a stampare fotografie; il lavoro più difficile era
quello del
lavaggio, che, non avendo acqua corrente, diventava molto laborioso, difatti,
a volte,
qualche fotografia mi rimaneva macchiata di acido. L’impresa, in ogni modo, fu
molto fortunata perché mi permise di avere un buon guadagno, pur facendo
pagare,
le fotografie, molto meno di quello che prendeva il fotografo.
Il 25 gennaio 1940, dopo più di un anno di permanenza a Celgà, rientrai a
Gondar,
dove, per un breve periodo feci servizio al Centro Radio e frequentai un corso
che mi
diede la nomina a caporadiotelegrafista, cosa che mi fu molto gradita perché
dalle
lire 2,32 giornaliere che prendevo come specializzazione di radiotelegrafista
passai
a lire 5,668 per la qualifica superiore, “all’epoca era una buona sommaö.
Il 20 giugno 1940 fui assegnato, come capo centro radio a Bahir Dar, una base
logistica che si trovava a sud del Lago Tana, all’origine del Nilo Azzurro.
Avevo
una stazione usata per il traffico con Gondar, che smaltiva anche i telegrammi
del
locale Ufficio Postale, una per collegare i presidi interni ed una per
avvistamento
velivoli; eravamo in piena guerra. La stazione addetta all’avvistamento
velivoli
l’avevo impiantata in un rifugio sulla riva del Lago, questa era collegata, a
mezzo di
una linea telefonica da campo, con la linea di volo del locale aeroporto, dove
erano
sempre pronti due piloti con i relativi aerei da caccia CR 42. Quando, grazie
alla rete
d’avvistamento, veniva segnalato che aerei nemici si dirigevano verso i
Presidi
interni, il radiotelegrafista addetto avvertiva i due piloti, i quali
decollavano subito
per andare a portare la loro difesa, cosa che non sempre andava a buon fine.
Il 29 aprile 1941 fummo costretti ad evacuare da Bahir Dar, le cose andavano
verso
il peggio, e rientrammo a Gondar.
L’11 giugno del 1941 fui assegnato al Presidio di Amba Devà, all’osservatorio,
nella cinta fortificata di Gondar con una stazione radio da 15 Watt che veniva
alimentata con batterie a secco in ricezione, mentre in trasmissione veniva
usato un
generatore a pedale. Il mio cuore gioisce al pensare che, grazie alla mia 15
Watt ed
alla grande invenzione del nostro beneamato Marconi, molte persone riuscirono
a
mettersi in salvo, perché gli aerei inglesi che venivano a bombardare Gondar
passavano sempre sulla mia postazione, che era nella parte più alta. Esisteva,
anche
qui, una rete di avvistamento velivoli, ne ricordo ancora i nominativi; il mio
era
XMV, la stazione che era a Gondar XMX; quando giungevano gli aerei invitavo il
mio aiutante, che si chiamava Bruno, a pedalare e davo la notizia degli aerei
che si
dirigevano su Gondar; dalla mia postazione riuscivo a vedere tutto, ed era con
gioia
che, dopo qualche istante, sentivo le sirene fischiare, dando modo a tutti di
mettersi
al sicuro nei rifugi. Da parte nostra avevamo una scarsa difesa; solo una
mitragliatrice quadrinata, i nostri moschetti ed un aereo da caccia CR 42 che
quando
3
decollava aveva le munizioni contate ed era impotente contro gli aerei Flaying
fortress “fortezze volantiö che venivano a bombardare Gondar. Però, una volta,
con
l’arrivo degli aerei, le cose cambiarono; ricordo che era un tardo, nuvoloso
pomeriggio, sentivo degli aerei che si avvicinavano ma non li vedevo, e, come
al
solito, dissi a Bruno: pedala! Chiamai XMX e comunicai: Attenzione! Aerei
nemici
si dirigono su di voi; mi fu chiesto quanti erano, andai fuori ed a stento
riuscii a
vedere che erano in cinque, e manipolai: cinque! cinque! Mi fu chiesto il
tipo; andai
ancora fuori e notai che erano cacciabombardieri, trasmisi ancora:
cacciabombardieri! cacciabombardieri! Ma ormai gli aerei erano sulla nostra
postazione ed, al contrario di tutte le volte precedenti, incominciarono a
scaricare il
loro carico di bombe su di noi; ci buttammo a pancia a terra e, alla fine del
bombardamento, con meraviglia, ci accorgemmo che eravamo rimasti illesi; penso
che, grazie alla nostra postazione, che si trovava nella parte più alta della
collina, le
bombe, nell’avvicinarsi al suolo ed incontrando maggiore resistenza dell’aria,
furono
deviate tutte intorno alla collina stessa.
Ormai eravamo accerchiati da quasi sette mesi e mancava tutto. Alcuni giorni
prima
del 27 novembre 1941, giorno della caduta di Gondar; a causa della cattiva
nutrizione, si mangiava una quantità scarsa di riso con la buccia, qualche
pugno
d’orzo abbrustolito, quando si riusciva ad averlo da qualche ascaro (soldato
abissino)
che andava a rubarlo nei campi fuori della nostra postazione, e finocchi
selvatici; fui
preso da un forte attacco di appendicite con peritonite. Dopo sette giorni di
atroci
sofferenze, fui caricato su una barella usata da otto persone che si davano il
cambio,
e, dopo alcune ore di mulattiera, sotto la minaccia di un aereo nemico che
solcava il
cielo; "si vede che fotografava il suolo per preparare l’offensiva"; ricordo
che tutte le
volte che passava sulle nostre teste, i militari adagiavano la barella a terra
ed
andavano a ripararsi dietro qualche grosso sasso. Io rimanevo lì ad osservare
l’aereo
e mi aspettavo mi dessero una mitragliata, ma per fortuna non fu cosi.
4
Raggiungemmo la camionale e fui caricato su un automezzo di passaggio che mi
portò in Ospedale, dove, a causa del troppo tempo trascorso dal mio attacco di
appendicite, non fu possibile operarmi. Era il 4 novembre 1941. Il professor
Maselli (ne ricordo il nome), a seguito mia insistenza di operarmi, a causa
dei forti
dolori che mi affliggevano, mi disse le seguenti, testuali parole: "non sono
un
macellaio, metterti le mani addosso ora, vorrebbe dire mandarti all’altro
mondo, dovevi farti ricoverare prima". Dal reparto chirurgia, dove ero stato
ospitato, fui trasferito al reparto medicina e sottoposto ad una serie di
punture per
mitigare l’infiammazione intestinale, prima di procedere all’intervento. Dopo
alcuni
giorni dal mio ricovero. Gondar fu sopraffatta dalle preponderanti forze
nemiche,
che erano composte di soldati di numerose nazionalità; indiani, senegalesi,
australiani, neozelandesi, ecc…. ed io, anche se non ero affatto guarito ed in
condizioni di salute disastrose, dovute all’infiammazione intestinale ancora
esistente,
per far posto ai soldati nemici feriti, fui inviato nel campo di
concentramento
provvisorio del Castello di Fasilides in Gondar, era il 30 novembre 1941.
Tutto
ciò che avevo, compreso un grosso patrimonio di fotografie, tra le quali ve ne
erano
molte che mostravano usi e costumi abissini, rimase in prima linea. Ma, per
fortuna,
oggi sono qui, maresciallo in pensione, all’età di quasi 90 anni a raccontare
queste
cose. Non è meraviglioso?
Il mio battesimo del fuoco.
Il giorno 5 ottobre 1941 mi trovavo in una postazione della cinta fortificata
di
Gondar, allora Africa Orientale Italiana, che era già accerchiata da circa 6
mesi, il
mio incarico era marconista ed avevo una stazione radio da 15 Watt. La mia
postazione era un osservatorio nella parte più alta della collina, denominata
"Amba Deva'".
Nel pomeriggio di quel giorno, ricevetti un telegramma dal comando della 22^
compagnia marconisti che mi ordinava di prepararmi per partire, il giorno
dopo,
con la mia stazione, unitamente al mio aiutante che si chiamava Bruno, senza
specificarmi il motivo, e di raggiungere un reparto d’Artiglieria che si
trovava sulla
strada camionale. Mi furono forniti due muletti a basto per il trasporto della
stazione
e, come viveri per 3 giorni, ci furono dati alcuni cucchiai di farina di ceci
ed una
piccola quantità di tè e zucchero ciascuno, dicendoci che avremmo trovato
qualche
altra cosa da mangiare al reparto d’Artiglieria, nostra prima tappa.
Al mattino del 6 ottobre 1941, dopo aver caricato il tutto sui muletti
c’incamminammo, a piedi, lungo la discesa. Per giungere sulla strada bisognava
percorrere alcune ore di mulattiera. Nel tardo pomeriggio arrivammo al reparto
d’Artiglieria, dove ci fu riferito che non avevano viveri da darci e, come
ricovero
per passare la notte, ci fu indicata una nuda baracca con poca paglia sparsa
sul
selciato. Eravamo stanchi, così, riparati da una coperta che avevamo con noi,
ci
buttammo su quell’acciottolato e ci addormentammo. Il mattino dopo, sempre
senza
conoscere la destinazione, fummo accodati ad una colonna e c’incamminammo
lungo la strada. Nel pomeriggio giungemmo alla sede di un reparto del Genio,
vidi a
poca distanza una forgia accesa, dissi a Bruno di prendere le nostre gavette e
di
5
andare a cuocere quei pochi cucchiai di farina di ceci che ci avevano dato;
come
risposta mi fu detto: "se vuole la sua la cuocio tutta, io preferisco
conservarmene la
metà"!; gli dissi: siamo qui che non conosciamo il nostro destino e non
sappiamo
quale fine potranno fare quei pochi viveri che ci hanno dato e noi stessi;
comunque,
fanne solo la metà. Eravamo fermi, mentre continuava l’assembramento di altre
forze, e seppi, soltanto durante quest’attesa, che eravamo destinati a fare
una puntata
offensiva su Amba Gheorghis, dove si trovava un Presidio nemico. Fui chiamato
dall’ufficiale d’ordinanza e mi fu spiegato quale era il mio compito. La
colonna era
costituita da un Battaglione d’assalto, un Battaglione di rincalzo e da una
batteria
d’artiglieria con cannoni da 127, che era schierata a poca distanza
dall’obiettivo che
dovevamo raggiungere. Questi reparti erano stati recuperati dalle postazioni
della
cinta fortificata di Gondar che, per tre giorni, rimase quasi sguarnita. Io
con la mia
stazione radio ero destinato al seguito del Colonnello Liuzzo, comandante
della
colonna. Con me erano collegate, una stazione radio installata presso la
batteria
d’Artiglieria ed una col battaglione di rincalzo. Mi fu data la frequenza ed i
nominativi. “Penso che questa puntata offensiva nelle linee nemiche fu
organizzata a
scopo di propaganda; perché non ne eravamo in grado, infatti, qualche giorno
dopo
si seppe che, da parte dell’allora Governo italiano ci furono commenti, come:
"i
gondarini, anche se scalzi ed affamati, hanno fatto incursione nelle linee
nemiche".
Era ormai tarda sera e ci venne dato l’ordine di iniziare la marcia; io ero,
naturalmente, in testa alla colonna, al seguito del Comandante e di un gruppo
di
ufficiali, la strada era tetra e tortuosa ed ogni tanto ci veniva ordinato di
spostarci a
destra o a sinistra per paura che il centro della strada stessa fosse minato.
Dopo aver
camminato per alcune ore; eravamo forse a poca distanza dalla méta, ci fecero
fare
sosta perché dovevamo trovarci all’alba sul posto. Ricordo che la carreggiata
era
umida ed anche i prati adiacenti la strada stessa erano bagnati dalla rugiata
della
notte, l’unico posto asciutto, in apparenza, era un mucchio di brecciame pieno
di
angoli taglienti, era quello che si ricavava una volta rompendo grossi sassi
con una
mazzetta di ferro per pavimentare le strade, ci stesi sopra la mia coperta e,
dopo
pochi minuti, a causa della eccessiva stanchezza fui preso da un sonno
profondo; non
sò quanto tempo avevo dormito, forse un ora,due, e quando fui svegliato per
proseguire il cammino, mi sembrò di aver dormito per una notte intera. Sempre
con
precauzioni di difesa, riprendemmo la marcia e giungemmo nei pressi di Amba
Gheorghis, dove, nella vallata a destra si vedeva la postazione nemica, mentre
a
sinistra della strada c’èra una scarpata di alcuni metri. Mi fu ordinato di
salire quel
pendio e di raggiungere la sommità, dove c’èra un avvallamento, e di piantare
lì la
mia stazione in attesa di ordini. Incominciai la salita con i due muletti ed
il loro
carico e con Bruno, ma giunti a metà fummo attaccati da un improvviso,
spaventoso
mitragliamento e fucileria; e pensare che fino a quel momento non avevamo
subito
nessun disturbo; si vede che ci avevano aspettati al varco; le pallottole
fischiavano in
grande quantità, e ci fu un fuggi fuggi, pure io e Bruno, per spirito di
conservazione,
cercammo riparo dietro i muletti, ma poi pensai che era necessario impiantare
la
stazione e, sfidando il pericolo, continuai la salita, raggiunsi
l’avvallamento e
predisposi la radio. Dopo qualche minuto venne l’ufficiale d’ordinanza e mi
portò un
telegramma che chiedeva l’intervento dell’Artiglieria, accesi l’apparato e
dissi a
Bruno di pedalare, “la stazione in trasmissione veniva alimentata da un
generatore a
6
pedaleö ma, con mia sorpresa, vidi che la dinamo non dava corrente, e fu con
grande
fortuna che, ricordandomi di ciò che mi avevano insegnato al corso; presi due
pezzi
di filo di rame, li collegai alla batteria a secco e la eccitai; riuscii a
farlo in
pochsissimo tempo; trasmisi il messaggio e fu con grande gioia che, dopo
qualche
istante, vidi arrivare sulla postazione nemica, i proiettili sparati dai
nostri cannoni,
che causarono la fuga di tutti quelli che la componevano e l’arresto del loro
mitragliamento. Mi fecero trasmettere altri messaggi che chiedevano
l’allungamento
del tiro, e, dopo che il nemico era in fuga partì l’assalto del nostro
Battaglione, che,
giunto sul posto fece scoppiare una riserva di munizioni, razziò alcuni capi
di
bestiame, dei quali avevamo estremo bisogno e, per non correre rischio,
incominciò
subito il ripiegamento. Ormai l’obiettivo prefisso era stato raggiunto, ed ora
non ci
rimaneva che cercare di tornare a casa con il minor numero di perdite, è
naturale che
le truppe nemiche c’inseguivano. Io ero rimasto nella mia postazione ed
attendevo
ordini che non arrivavano mai, e venni a trovarmi tra il fuoco della nostra
retroguardia e quello del nemico che ci correva dietro, le pallottole
fischiavano sulle
nostre teste, mi vedevo in pericolo, così dissi a Bruno: si vede che si sono
dimenticati di noi, spiantiamo! Cosa che facemmo, ma, appena caricata la
stazione
sui muletti, ecco giungere l’Ufficiale d’ordinanza con un telegramma da
trasmettere
all’artiglieria; il quale diceva: "ore 8,30 tirate su Ghevescià et rotabile"
che era la
postazione dove ero io, guardai l’orologio e vidi che erano già le 8,10, feci
presente
all’Ufficiale che rimaneva pochissimo tempo e che avrei corso il rischio di
farmi
tirare i proiettili addosso, mi replicò di fare alla svelta e di portargli la
conferma
dell’avvenuta trasmissione. In tutta fretta reimpiantai la stazione ed
inaspettamente
mi accorsi che questa volta era il ricevitore a non funzionare, non so se ciò
fu
causato dalla fretta o dalla vetustà della mia 15 Watts, ma non mi persi di
coraggio,
dissi a Bruno di pedalare, e lanciai: "Attenzione! attenzione! Mio ricevitore
non
funziona, trasmetto messaggio; ore 8,30 tirate su Ghevescià et rotabile", lo
ripetei
per tre volte e poi spensi tutto. Sempre con premura, ricaricammo il tutto sui
muletti,
raccolsi il mio moschetto, e dissi a Bruno di raccogliere il tascapane dove vi
era la
rimanenza di quei pochi viveri che ci avevano dato e di seguirmi, non nascondo
che
la paura che il nemico ci arrivasse addosso era tanta, ed anche per questo mi
precipitai di corsa per la discesa; raggiunta la rotabile mi avvicinai al
Colonnello
Liuzzo, che era in compagnia dell’Ufficiale d’ordinanza, e fu proprio in quel
momento che partì il primo colpo di Artiglieria, l’ufficiale guardò l’orolgio
ed
esclamò: che puntualità! Erano le ore 8,30 precise. A quest’affermazione il
Colonnello andò sulle furie dicendo che l’ufficiale non aveva capito nulla;
difatti era
successo che, quando il Colonnello aveva dettato il telegramma, aveva detto:
tra
mezz’ora tirate su Ghevescià et rotabile, ma intendeva dire mezz’ora dopo
l’avvenuta trasmissione del telegramma stesso, in questo modo avremmo avuto il
tempo di allontanarci dalla zona che doveva essere colpita, ma l’ufficiale,
alla parola
“tra mezz’oraö guardò l’orologio, erano le otto, e scrisse ore 8,30, poi
impiegò circa
10 minuti per venire da me; quindi, il telegramma venne trasmesso alle 8,15,
in
questo modo il cannoneggiamento fu anticipato di un quarto d’ora. I
proiettili, per
fortuna, cadevano tra la colonna che era sulla strada ed i fiancheggiatori.
Ero
esterrefatto e molto preoccupato, perché mi sembrava che la colpa fosse mia;
anche
se, a testimonianza della mia incolpevolezza, conservavo l’originale del
telegramma.
7
Intanto Bruno con i muletti mi aveva raggiunto ed io dissi al Colonnello che
se
voleva avrei potuto impiantare la stazione radio e dare il cessate il fuoco
all’artiglieria, ma mi fu risposto di andare avanti per la
strada e stare attento; in caso fossero venuti gli aerei nemici a bombardarci,
cosa che
ci aspettavamo, di mettere in salvo la stazione radio, e mandò un Ufficiale,
di corsa,
a dorso di un muletto, a dire all’artiglieria, che non era distante, di
sospendere il
fuoco, cosa che, con mio grande sollievo, avvenne dopo qualche minuto, Lungo
la
strada, prima di raggiungere il reparto d’Artiglieria, fui sorpassato da una
macchina
con a bordo l’ufficiale addetto ai collegamenti, che, gridando mi disse:
“Marino! Ti
ho sentito dalla prima nota fino all’ultima, sei stato un campanelloö, (era
questo
un gèrgo che si usava nel campo della telegrafia per dire che si trasmetteva
senza
fare errori), ed aggiunse: “tieni presente che, se per questa operazione ci
saranno
delle ricompense, la prima dev’essere tuaö. Dopo poco tempo avvenne la caduta
di
Gondar e la mia ricompensa se ne andò in fumo.
Giunti al reparto d’Artiglieria, dissi a Bruno di tirar fuori dal tascapane la
rimanenza
della farina di ceci, lo zucchero ed il tè per far fuori tutto, tanto il
giorno dopo
saremmo rientrati alla sede in Amba Devà, ma con sorpresa mi fu detto che per
la
fretta il tascapane, con le gavette e tutto il resto, era rimasto su Amba
Ghevescià,
dove avevamo impiantata la stazione. Con la fame che avevamo questo non ci
voleva. Per fortuna riuscimmo a recuperare qualche pezzo di galletta ed un po’
di tè
dai cucinieri, che ci permise di accontentare un po’ lo stomaco. Il giorno
dopo
intraprendemmo la mulattiera e rientrammo alla sede di Amba Devà.
Diano Marina, 14 giugno 2003 Salvatore Marino.
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                   73 - Renato, T77GR @ IR4U-8 V IR4UAA

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